Il 1946 è l’anno delle elezioni, le prime libere dopo il ventennio fascista. Nelle piazze e nei mercati, nei caffè e nelle osterie, nei luoghi di lavoro si torna a parlare di politica. Le città cambiano volto, manifesti di diverse dimensioni sono affissi sui muri e richiamano l’attenzione dei passanti, suggeriscono diverse parole d’ordine e si affidano a differenti rappresentazioni. Nelle piazze si consuma lo spettacolo della mobilitazione con i tricolori e con le bandiere del partito di appartenenza, con palchi e altoparlanti, mentre i volti e le voci dei leader acclamati catturano gli spettatori sempre numerosi specialmente nei grandi centri. I comizi si susseguono nelle piccole come nelle grandi città, uomini e donne accorrono in teatri e cinema gremiti. Italiani e italiane imparano a conoscere i propri rappresentanti, li osservano curiosi dall’alto dei podi e delle tribune. Una schiera di oratori e di oratrici, una presenza quest’ultima che rappresenta una novità nel 1946. Se tra Ottocento e Novecento furono numerose e popolari le conferenziere che incrinarono lo stereotipo della donna stanziale, nel dopoguerra il fenomeno assume dimensioni di massa. Le oratrici acquistano un’inedita visibilità, la stampa presta loro attenzione, mentre esse affrontano disagi, diffidenza, le critiche e i pregiudizi degli ambienti più arretrati. I partiti di massa, in particolare il Pci e la Dc, così come l’Udi e il Cif, raccomandano espressamente alle dirigenti di osservare uno stile serio e rigoroso nell’aspetto e nel comportamento: la riprovazione severa per l’adozione di un abbigliamento e di uno stile considerato poco consono al ruolo è inevitabile.
L’immagine del parlamentare e della parlamentare davanti a un microfono costituisce un diffuso cliché nella rappresentazione dell’uomo e della donna politica e dal 1946 la sua circolazione trova conferma negli anni successivi.