La mia prima riunione la tenni nell’Aprile 1946 nel corso della campagna per l’elezione dell’Assemblea Costituente e per il Referendum su Monarchia o Repubblica. Il voto era fissato per il 2 giugno 1946.
Ero stato nominato di recente segretario della Sezione del PCI di Bubano, e come tale dovevo parlare in una casa di campagna ad un pubblico di contadini. Si trattava di mezzadri e coltivatori diretti di orientamento cattolico ed era quindi un compito di grande responsabilità.
A persone con appena la terza o al massimo la quinta classe elementare, appena uscite dal regime fascista e dalla guerra, dovevo spiegare che cos’era una Assemblea Costituente, che cos’era una Costituzione, perché bisognava votare comunista, ed infine perché una Repubblica era meglio di una Monarchia.
Furono per me giorni di grande tensione intellettuale. Lessi molti articoli su “l’Unità” e su “Rinascita”. A pranzo e a cena, senza assaporare il cibo, sbirciavo il giornale sotto le occhiate esterrefatte della nonna e i brontolii della madre. Presi tanti e tanti appunti. E numerai accuratamente i foglietti.
Giunse finalmente la sera della riunione.
Il cuore mi batteva forte quando arrivai nella grande casa colonica di Via Canale dei Molini. Lo stanzone che serviva da cucina e da sala da pranzo era strapieno di gente: uomini e donne, vecchi e giovani, bambini d’ogni età. Nell’enorme focolare scoppiettavano le scintille e la fiamma ravvivava la fioca luce sparsa dalla lampada a petrolio pendente dal soffitto.
Mi fu data la parola. Cominciai a rigirare fra le mani le numerose paginette degli appunti ma distinguevo a stento le parole che vi erano scritte.
Rigiravo i foglietti ed osservavo i volti dei miei ascoltatori. Era tutta gente che parlava in dialetto, nel locale dialetto romagnolo, mentre le parole dei miei foglietti erano tutte in italiano.
Capii che se avessi voluto farmi comprendere da quella gente, se avessi voluto ottenere la loro fiducia, se volevo farmi considerare uno di loro, avrei dovuto parlare come loro, e cioè in dialetto.
Misi allora i foglietti in tasca, guardai i volti presenti nello stanzone, volti segnati dalla fatica dei campi e delle stalle, e cominciai a parlare, a parlare in dialetto romagnolo.
Non fu certo facile pronunciare in dialetto parole come Referendum, Elezioni, Assemblea, Costituzione, Monarchia, Repubblica, Democrazia, Dittatura, Libertà, Giustizia, Pace. Bisognava tradurre quelle parole dall’italiano nel dialetto romagnolo, spiegarne il significato perché durante il fascismo tali parole non erano di uso comune.
Molte di quelle parole le avevo incontrate al Liceo Classico in lingua greca. Attraverso il latino esse erano passate nella lingua italiana, ed ora io le dovevo far trasmigrare nel dialetto romagnolo. Spiegai che occorreva votare il simbolo del PCI per eleggere all’Assemblea Costituente quelli che avrebbero fatto scrivere nella legge costituzionale i sacrosanti diritti dei “lavoratori del braccio e della mente”. Cercai pure di far comprendere cosa significava la “democrazia progressiva” di cui aveva parlato il nostro capo, che si chiamava Palmiro Togliatti e che era arrivato da Mosca, la capitale dell’Unione Sovietica.
Ricordai le responsabilità di Casa Savoia nell’aver favorito l’ascesa del fascismo al potere e nello scatenamento della guerra che aveva causato tanti disastri e tanti lutti. Aggiunsi che un Presidente della Repubblica si poteva sostituire alla scadenza del mandato, mentre per cambiare un Re occorreva una rivoluzione. E poi c’era il principio ereditario che avrebbe potuto portare sul trono un figlio di Re di scarso comprendonio.
Al termine della mia mezz’oretta di discorso restarono tutti in silenzio. Nessuno interloquì. Il capofamiglia si alzò, sussurrò “con permesso” e usci rientrando poco dopo con due fiaschi di vino. Le donne si affrettarono a distendere una grande tovaglia di lino bianco sul lunghissimo tavolone ed a predisporre i bicchieri.
Bevemmo alla salute dei presenti ed alle fortune del popolo italiano. In dialetto romagnolo, naturalmente. E volli concludere con un appello all’unità tra chi lavora, fra operai, braccianti, mezzadri, coltivatori diretti. Ricordai loro il brano manzoniano dei capponi, recati da Renzo all’avvocato Azzeccagarbugli, che per strada si beccavano tra loro ignari della sorte che li attendeva. Non si doveva fare come loro.