14 luglio: dal Pantheon (dov’era la sede dell’UDI) a Montecitorio è un passo, perciò la notizia dell’attentato a Togliatti ci raggiunse subito. Corremmo, ma l’avevano già portato via. Furono due, tre giorni di manifestazioni e cortei grandiosi. In un baleno quella mattina il centro di Roma si riempì di lavoratori che erano usciti dalle fabbriche, di cittadini, compagni, e no. Andammo fino al Policlinico e di nuovo al Corso, a Largo Chigi. Qui quel giorno o il giorno dopo la polizia sparò e uccise un lavoratore. Ma i colpi erano stati parecchi. Un compagno della sezione Esquilino, Carlo Ferri, all’improvviso mi scaraventò a terra, facendomi saltare gli occhiali, sentii il fischio delle pallottole e capii che mi aveva forse salvato la pelle. La rabbia montava e si disselciarono un po’ di sampietrini, mentre infuriavano i caroselli delle camionette della Celere coi manganelli su e giù sulle teste. Sono immagini ormai sfocate negli anni però indimenticabili.
Poi si decise la fine dello sciopero generale i cui limiti non erano stati precisati nel proclamarlo. Tanto che, per quel che mi riguarda, alla riunione della cellula della Direzione del PCI riunitasi dopo gli avvenimenti io, in genere restia a parlare, rilevai in modo critico che non si era fatta differenza tra “sciopero ad oltranza” e “sciopero indeterminato”, dando il pretesto alle repressioni feroci che ci furono in tante parti d’Italia in seguito ad alcuni eccessi della lotta, basti pensare ai fatti di Abbadia San Salvatore per i quali vennero comminati 500 anni di carcere. Si arrivò al punto che la polizia entrò nella sede della Federterra di Siena e sparò contro i presenti per vendicare la morte del graduato di Abbadia che era stata provocata da un seminfermo di mente.