L’inverno del 77 passò così tra assemblee, riunioni, autogestioni, cortei di zona, cittadini, nazionali. Tutte cose da “gruppettari”, da “compagni che sbagliano” come ci chiamava Massimo con i suoi compagni della FGCI, da “pelosi”, era l’appellativo che ci rivolgevano i pariolini, quelli che passavano seduti in pizzo ai loro boxer, vestiti da fighetti e rasati. Io avevo una specie di divisa consistente in zoccoli o pedule blu, la gonna a fiori o i jeans a tubo, un maglione largo di mio padre e l’immancabile borsa di Tolfa che potevi mettere a tracollo e conteneva le sigarette, i documenti, un libro, un fazzoletto da mettere sul viso. Ai cortei delle femministe non portavano il reggiseno ma a me non riusciva. A nessuna saltava in mente di truccarsi o depilarsi, però si usavano il kajial, e il patchouli. Dal parrucchiere si andava solo per un radicale taglio di capelli che io mi decisi a fare solo a vent’anni. Questo stile di vita era adatto alle mie esigenze dato che i miei mi avevano tagliato i viveri.