Anche il mattino del 14 luglio 1948 uscii di casa e mi avviai a piedi verso il centro. Per la verità, era mattino soltanto per me che, avendo fatto la notte, mi ero alzato poco prima delle tredici. In fretta avevo mandato giù un po’ di latte tiepido e poi me ne ero uscito.
“Ciao Umbertina, tornerò alla solita ora, stanotte”.
Avvicinandomi alla Motta mi sembrò di notare qualcosa di diverso dal solito. Intanto, non c’erano i tram. Ma di questo me ne avvidi soltanto più tardi; poi, stranamente, sui tetti degli stabilimenti giravano numerosi operai in tuta blu. Quando fui ancora più vicino mi resi conto che gli operai erano armati con fucili, qualche mitra, diverse pistole. I portoni erano sbarrati e davanti all’ingresso principale sostava una colonna della “Celere”. I poliziotti se ne stavano, pallidi e silenziosi, all’interno delle camionette; sulla prima sedeva, accanto all’autista, il maggiore Arista, che conoscevo perché si era distinto in cento imprese contro gli operai. Quando c’era da infrangere uno sciopero o da sciogliere violentemente una manifestazione, si poteva star certi che da qualche parte sarebbe sbucato questo maggiore Arista.
Ma stavolta era diverso. Gli operai erano armati e sembravano piuttosto decisi. Ecco perché il maggiore Arista preferiva, insolitamente, starsene tranquillo sulla sua camionetta.
Ma cos’era successo?
Abbordai il giornalaio all’angolo, che conoscevo bene perché era il mio giornalaio.
“Sciopero generale – disse – hanno sparato a Togliatti. L’Unità ha preannunciato un’edizione straordinaria. Tira un’aria, ragazzo mio…”
Mi fece cenno di guardare nei tetti della Motta.
“Visto”, dissi.
Sulla strada cominciarono a passare camion pieni di operai. Alcuni erano armati. Sulle tute avevano infilato cinturoni e bandoliere; a spalle avevano i fucili. I camion sfiorarono le camionette della “Celere” e proseguirono la corsa verso Porta Romana e il centro.
“Son quelli della Caproni”, disse il giornalaio.
Cominciai a correre anch’io. I negozi abbassavano le saracinesche e molta gente, sui marciapiedi, camminava frettolosamente. Allora mi accorsi che non circolava più neppure un tram. Riuscii ad entrare in un bar ancora semiaperto
“Fatemi telefonare – dissi – è importante”.
Cominciai a comporre il numero del giornale e soltanto dopo una ventina di tentativi sentii la voce del centralinista.
“Dammi qualcuno della segreteria – dissi – sono Campisi”.
Mi passò la Olga Arcangioli.
“Vieni subito, c’è bisogno di tutti”.
“Ma sono a piedi, sarò lì soltanto tra un’ora”.
“Prendi un tassì, mannaggia, ma vieni”.
Mi contai i soldi in tasca.
“Basteranno per il tassì? Forse sì”.
Ripresi a correre, guardando ogni tanto alle mie spalle se sopraggiungeva un tassì. I posteggi erano completamente deserti. Ormai avevo la lingua penzoloni e gli occhi stralunati, quando avvistai l’auto verde e nera dall’altra parte della strada. Mi sbracciai e l’autista si fermò.
“In piazza Cavour – dissi salendo – al Palazzo dei giornali”.
L’uomo abbassò la bandierina e rimise il motore in movimento, dirigendosi verso il centro.
“Faccio questa corsa – disse – poi me ne vado a casa anch’io. Qui fra poco si spara. Ha visto che bombarde ci sono in giro?”.
“Ha ascoltato la radio?” domandai.
“No. Ho parlato con colleghi che l’hanno ascoltata. Togliatti è conciato male. Gli hanno sparato alla testa proprio davanti al Parlamento. Quattro colpi. Come si è sparsa la notizia, c’è stato un lungo brivido: addio, qui si mette proprio male”.
Anche il palazzo dei giornali, in piazza Cavour, era presieduto da squadre di operai; ma nessuno portava armi. Salii di corsa al secondo piano senza aspettare l’ascensore. Come arrivai nei corridoi della redazione, che sembrava affollata come la fiera degli “ O bei! O bei!” mi bloccò il redattore capo.
“Campisi – disse – menomale che sei arrivato. Vai giù in cortile, è in partenza la macchina con le copie dell’edizione straordinaria per Venezia. Parti anche tu. Quando arrivi ci telefoni qualche notizia”.
Ritornai giù di corsa, facendo i gradini a due alla volta. Il cortiletto dove si caricavano le macchine, era stracolmo. C’erano gli automezzi dell’Unità, quelli del Corriere Lombardo e dell’Avanti!. E un gran bailamme.
“Chi va a Venezia?”, gridai girando da una vettura all’altra.
“Io”, rispose un autista. Indossava una tuta e sopra un giubbotto di pelle.
“Vengo con te”, dissi.
“Sei del giornale?”, domandò scrutandomi.
“Si, mi chiamo Campisi. Sono dell’Unità. Marchi, il redattore capo, mi ha appena detto di prendere la macchina per Venezia”.
“Va bene. Si parte: il carico è finito”.
La macchina era un furgoncino Fiat, tutto rosso, chiuso nella parte posteriore. Sul vetro anteriore era appiccicato un vistoso cartello: “Servizio Stampa”.
Presi posto accanto all’autista.
“Come ti chiami?”, domandai.
“Gorla”.
Uscimmo dal portone di via Senato, passammo davanti alla questura. Decine di agenti facevano deviare tutto il traffico normale; ma la nostra vettura “Servizio Stampa”, potè passare.
“Andiamo a prendere l’autostrada per Brescia”, disse Gorla.
Le via, soprattutto in periferia, sembravano quelle di una città di retrovia alla vigilia di un attacco. Colonne di operai, camion con bandiere rosse, automezzi di ogni genere, tutti i negozi chiusi, neppure l’ombra di un tram, migliaia di cittadini appiedati.
“Guarda lì nello sportello del cruscotto – disse l’autista – c’è una copia della straordinaria”.
I fogli erano ancora bagnati d’inchiostro.
“Nella delittuosa atmosfera di provocazione creata da De Gasperi e Scelba. Criminale attentato contro Togliatti. Togliatti ferito gravemente da quattro colpi. Via il governo della guerra civile”, era il titolo a nove colonne.
Qualche ora dopo, quando nel tardo pomeriggio arrivammo in vista di Marghera e di Mestre, incontrammo soltanto operai. Prima lungo la strada, avevamo attraversato paesi semideserti e incrociato un paio di colonne militari. Sembrava invece che fossero spariti sia i carabinieri che i poliziotti. Davanti ai cancelli delle fabbriche i picchetti erano quasi tutti armati.
La nostra macchina venne fermata proprio all’inizio del Ponte della Libertà.
“Dove andate?”, domandò un operaio. Indossava la tuta e sulla spalla sinistra reggeva un fucile ridotto novantuno, proprio come quello che avevo avuto in guerra.
“A Venezia”.
“Chi siete?”
“Siamo dell’Unità. Abbiamo fretta, portiamo l’edizione straordinaria”.
“Fuori i documenti”.
Gorla si spazientì.
“Macchè documenti – disse – eccoti il giornale”.
Si avvicinarono altri due operai.
“Sono del servizio stampa – disse uno – falli passare: che vedano come la gente la pensa a Venezia”.
Sui marciapiedi, accanto alle spallette del ponte e fra i binari della parallela linea ferroviaria, altri gruppi di operai armati sostavano dietro a due mitragliatrici coi nastri dei proiettili inseriti.
“Va bene, andate”.
Un paio di ore più tardi telefonai al giornale una breve corrispondenza, in cui raccontavo quello che avevo visto e anche l’incontro con gli operai armati di fucili e mitragliatrici, le calli semideserte dove circolavano soltanto operai e vigili urbani e descrivevo brevemente l’assalto che era avvenuto nel pomeriggio alla sede di Radio Venezia. A metà dettatura venne al telefono il redattore capo.
“Che hai saputo?”, domandò. Gli spiegai brevemente.
“Togli le armi – rispose – e parla soprattutto delle manifestazioni”.
“Ma le armi ce le hanno veramente”.
“Lo so – disse – ma non devono usarle e non bisogna parlarne. altrimenti domani mezza Italia è per strada coi fucili”.