Si giunse così al 14 luglio 1948. Appena rientrato in centrale dopo l’intervallo del pranzo, mi avvertirono di una telefonata esterna e, passato il microfono all’orecchio, sentii la nota voce, rotta dall’emozione, del compagno Nicoletti dalla centrale di Cotilia: “Hai ascoltato la radio delle 13?”. “No! Cosa è successo?”. “Hanno attentato alla vita del compagno Togliatti. Ora è al policlinico moribondo”. Saltai fuori dalla cabina telefonica, cercando qualche membro della Commissione interna. Andammo nell’ufficio del direttore della centrale, dott. Ciarini, e chiedemmo la sospensione di tutte le attività, compreso l’arresto delle macchine di produzione di tutta l’area. Egli, già al corrente dei fatti, tentò di tergiversare dicendo che sarebbe stato opportuno attendere notizie sul comportamento delle altre regioni d’Italia. Al che, risposi che non vi era nulla da attendere, che noi stessi avremmo assunto la responsabilità della proclamazione dello sciopero ad oltranza e quindi, telefonicamente, invitai a partecipare i dipendenti di tutte le centrali e cabine fuori sede. Entro le 14, intervennero alcuni membri del comitato federale comunista e della Camera del lavoro. Tutto era già fermo ed i lavoratori del complesso si erano radunati sul piazzale interno dove si tenne un comizio, per informare l’uditorio sui particolari del crimine e della spontanea reazione dei lavoratori di tutta Italia. Come noto e per fortuna, Togliatti superò le gravi ferite riportate dai colpi di pistola, che gli erano stati sparati a bruciapelo. Comunque, passammo tre giorni e tre notti consecutivi all’interno della fabbrica, in spasmodica attesa. Si era formato un comitato di agitazione, di cui io ero il presidente, composto da tutti i partiti democratici, ma con il sostegno politico, a livello provinciale, solo del PCI e dei sindacalisti della stessa corrente. Molto si è detto e scritto intorno a quel tragico episodio, portato a segno dal fascista Pallante, senza essere riusciti a stabilire se quella fu un’iniziativa personale, ovvero guidata da un’alta congiura, come del resto per gran parte dei reati di questo dopoguerra.
Il mattino del 15, successivo all’attentato, ci raggiunse infuriato il compagno Farini (nuovo segretario della Federazione comunista di Terni), ritenendomi responsabile, quale presidente del comitato di agitazione, di avere autorizzato la sera precedente il transito del tranvai che normalmente trasportava gli operai dalla Valnerina. Si era infatti ravvisata in comitato l’opportunità di far affluire nella fabbrica i lavoratori del servizio notturno per rafforzare il presidio, ma senza prevederne certe conseguenze: il tram viaggiò tutto illuminato e ciò non sfuggì ai giornalisti che pubblicarono la notizia che a Terni i tram viaggiavano regolarmente. Ci fu un chiarimento anche a mezzo stampa e non vi furono inconvenienti. I primi due giorni ci fu una grande partecipazione allo sciopero: i lavoratori di ogni categoria ed orientamento furono presenti ed attenti allo sviluppo degli avvenimenti. Il comitato di agitazione era l’unico organismo che dirigeva il da farsi di notte e di giorno: blocco degli ingressi con carri ferroviari deragliati, ispezioni a turno in tutti i punti strategici anche per renderci conto del movimento delle forze di polizia, che circolavano continuamente all’esterno. Il maresciallo dei carabinieri della stazione che stava proprio a ridosso dello stabilimento elettrochimico, ci informò che era pronto a consegnarci le armi. La considerai una provocazione e proposi di non rispondere affatto a simili assurdità. Così pure, la sera del l6 un ex-partigiano venne ad annunciarci che erano state piazzate delle mitragliatrici nel bosco, dalla parte opposta della valle. Lo cacciai fuori intimandogli di riportare certi argomenti dove li aveva presi, perché non eravamo in guerra. Per buona sorte, le notizie del compagno Togliatti volgevano all’ottimismo e con lui fu salva la situazione, poiché, passata la fumata emotiva delle prime ore, ognuno si squagliava alla chetichella abbandonando anche il posto che gli era stato assegnato. Allo scadere del terzo ed ultimo giorno di sciopero, mentre presidiavo l’ingresso con altri tre membri del comitato, si presentò una pattuglia della polizia celere. Facemmo presente che gli stabilimenti elettrochimici e le centrali erano presidiati dal personale in agitazione, ma in realtà si poteva contare su poche decine di uomini, comunisti e attenti alla disciplina di partito. Questa era la situazione che si era venuta a creare in generale in tutto il Paese. Per questo fu giusta la risposta che poi si è data a tutti quelli che ancora oggi accusano il partito di non aver saputo cogliere l’occasione per prendere il potere. Ed è qui bene ricordare che, per prendere il potere occorre avere la sicurezza di poterlo mantenere e ciò comporta impegno e sacrifici, altrimenti tutto si risolve in una catastrofe e in un salto indietro di mezzo secolo.