Quando giriamo per le strade di Cascine Vica, siamo segnati a dito. A certa gente dobbiamo sembrare proprio strani. Giriamo sempre in gruppo, d’inverno quasi tutti infagottati nell’eskimo verde, d’estate camicie militari che andiamo a comprare il sabato al Baloon, il mercato dell’usato e delle robe vecchie dietro Porta Palazzo, jeans anch’essi usati; ai piedi scarpe da tennis o clark d’estate, anfibi consumati d’inverno. Abbigliamento su cui ironizza facilmente mio padre: “Che ci fate con ‘ste camicie, a voi l’esercito non piace”. È lontano distanze siderali dall’idea che le indossiamo apposta, in maniera iconoclastica, come tra noi dicevamo allora ingenuamente, “per demistificare l’istituzione”.
Ci facciamo notare perché siamo tutti maschi, con una sola eccezione, Valentina, studentessa del professionale, che qualcuno di noi ha conosciuto sul filobus.
È magrissima, due gambe lunghe da fenicottero, capelli ricci tendenti al rosso. Bellissima anche se nascosta sotto il suo eskimo, verde come quello di tutti. Nel gruppo se ne innamorano quasi tutti, chi esternandolo con una certa foga chi in maniera più discreta.
Ma eravamo destinati a rimanere ancora per un po’ una comunità monastica. In capo ad un anno, diciamo tra gli anarchici e Lotta continua, si trasferirà a Firenze con grande disappunto di tutti. In seguito ci arrivano notizie clamorose. Valentina ha mollato la scuola e adesso fa la modella.
Noi invece continuiamo a girare nei nostri eskimo. Ad un picchetto davanti alla Graziano occupata per la vertenza aziendale, una sera d’autunno attorno ad un fuoco per riscaldarci, un’operaia la cui coscienza ritenemmo ancora in formazione ci chiese: “Ma ‘sti affari ve li passa il sindacato?”.
Io invece non porto l’eskimo. Nelle rare foto di quegli anni indosso un giaccone blu alla marinaio, che mi dà un’insolita aria da dandy o, per solidarietà con gli altri, un giaccone da cacciatore con il collo in finta pelliccia, detto anche giaccone alla emme-elle, pure lui verde per non stonare con il resto della compagnia, che indosso, a guardarle ora, con una finta aria di trascurata civetteria. O forse è solo lo sguardo da miope.
In quegli anni il vestito fa il monaco e l’abbigliamento rivela la tua identità, la tua appartenenza. A Roma forse si era già in clima di omologazione culturale, come era spinto a credere Pasolini, ma nelle periferie di Torino le barriere erano ancora molto forti.