Ma la vicenda che a distanza di anni mi è rimasta più nitida in mente fu in occasione di una marcia di pace che facemmo da Santa Maria degli Angeli ad Assisi. Ci riunimmo in un centinaio sulla piazza dove sorge la famosa chiesa; molti avevano cartelli con slogans e motti, molti altri – soprattutto giovani – indossavano abbigliamenti un po’ estrosi, come andava di moda allora fra i beat. Io stavo un po’ in disparte. Conoscevo poche persone, le quali erano impegnate nell’organizzazione del corteo.
Intorno al gruppo passeggiavano poliziotti in borghese che ci osservavano con un’aria mista di indifferenza professionale e di curiosità. Capitini passava da un gruppo all’altro per salutare, organizzare, consigliare.
La marcia mosse dalla piazza e si snodò lungo la salita per Assisi, fra gli ulivi e le case di pietra rosa, fino alla piazza principale e lungo le stradine della città vecchia fino alla Rocca. Lì sostammo, un po’ affaticati, e sedemmo per terra. Ricordo che Capitini era vestito in giacca e camicetta aperta sul collo; si asciugava il sudore con un fazzoletto che poi passava all’interno del cappello di paia che lo riparava dal sole. Rivolse alcune parole agli intervenuti e poi ci invitò ad intonare alcuni canti di pace. Fu appunto quella la scena che mi è rimasta più impressa. Quell’ometto apparentemente insignificante, seduto su una pietra, cantare canzoni che quasi sembravano più grandi di lui. Il contrasto, insomma, fra la grandezza delle sue idee e la gracilità del suo corpo. È difficile dire qualche cos’altro su di lui; la sua vita la vedo raccolta in quell’immagine.