In casa mia si pianse quando morì Stalin. Ci eravamo appena messi a tavola e mia madre stava col mestolo pronta a versarci nel piatto lo spezzatino di trippa e patate, che a me piaceva tanto. Ero appena tornato da scuola e si sa che i bambini che iniziano da poco la scuola hanno più fame di quelli che ancora a scuola non ci vanno, visto che nel buon cibo caldo usano rovesciare tutto quel freddo che hanno provato stando lontano da casa. Del resto si era in febbraio e si sa come febbraio, se vuole, sappia essere freddo e amaro. Quel giorno, invece, mia madre indugiava nel servire a tavola e, dopo aver appoggiato il mestolo sul bordo del tegame, se ne stette con gli occhi fissi verso la finestrella alta, che illuminava appena la nostra tavola. Io non capivo cosa stava accadendo e del resto mio padre, che di solito era affamato almeno quanto me, invece di sollecitare mia madre a servire dalla pentola fumigante, se ne stava come paralizzato a guardare il suo piatto vuoto. Io neanche riuscivo a capire cosa ci fosse da guardare in quel piatto vuoto ed osservavo sia l’uno che l’altro, senza rendermi conto di quello che stava accadendo, nè i miei fratelli davano alcun segno di irrequietezza in quella evidente contraddizione, visto che da una parte c’era lo stimolo di un buon cibo caldo e, dall’altra, non c’era l’attesa che quella bontà finisse nei nostri piatti. Mi venne perfino il sospetto che quel giorno tutti in casa, escluso me, ch’ero affamato come un lupo e fremevo come una volpe rapinatrice, avessero mangiato. Infine mia madre si mosse e cominciò a servire, prima mio padre, ancora rigido e senza appetito, poi i miei fratelli, infine me, e mentre lo faceva io vidi dai suoi occhi uscire qualche lacrima che fecero irrigidere ancora di più mio padre, il quale però non pianse.
Il giorno dopo egli portò una grande foto di Stalin, ma io pensavo che non si trattasse dell’uomo di ferro, il grande capo dell’Unione Sovietica, quanto piuttosto di un famigliare, anche se dal suo aspetto, vestito in abiti militari e con grandi baffi, nell’atto di salutare col braccio alzato, mi facevano un po’ capire che si trattava di una persona speciale.