Nel gennaio del ’45, c’era stata l’approvazione diritto di vito alle donne, e io sono stata una delle prima donne a votare, sia sul referendum che nelle elezioni.
I partiti della sinistra erano profondamente consapevoli che la religiosità delle donne era soggetto di ricatto religioso, per cui dovevi fare un profondo lavoro proprio per riuscire a superare il ricatto, la paura dell’inferno, insomma, perché poi le cose erano queste. […] Si andava a casa a parlare con le donne, andavamo a insegnare a votare; la parola d’ordine era insegnare a votare perché c’era anche l’esigenza di un insegnamento tecnico, non avevamo mai votato e questo era per tutti, e poi anche il superamento dell’emozione: oddio, quando sono là dentro! Una donna di settant’anni, che sapeva miseramente far la croce, da sola dentro una cabina dove deve decidere. È stato un lavoro enorme, casa per casa. E non abbandonavi. Siamo andate tutte a votare con una paura di sbagliare che non dico, anche chi andava a insegnare diceva: “ma avrò fatto bene?”. Si aveva perfino paura che la riga diventasse torta, cioè quando facevi la croce che anche questo portasse danno.