Edoardo D’Onofrio era uno dei personaggi più in vista e più inquietanti del vertice del Pci. Era vissuto a lungo in Unione Sovietica, e anche lui aveva rischiato di essere travolto dalle purghe e dalle persecuzioni staliniane che si abbattevano sui rifugiati stranieri e sugli antifascisti italiani esuli a Mosca. Se l’era cavata, per la sua abilità e per la sua spregiudicatezza: nei gulag che ospitavano gli italiani accusati di essere provocatori o spie degli americani, lui fungeva da amichevole grande inquisitore e cercava di ottenere dai suoi colloqui e dai suoi interrogatori la prova provata della colpevolezza o dell’innocenza di quei poveretti.
Presso la base del partito in Italia, però, queste sue poco edificanti vicende non erano conosciute o se ne conosceva una versione edulcorata, secondo la quale D’Onofrio era stato uno di quei comunisti italiani che in Urss avevano tentato di salvare tanti compatrioti ingiustamente sospettati. A Roma D’Onofrio veniva familiarmente chiamato “il popolare Edo”: e popolare lo era davvero perché sempre affettuoso con tutti, pronto al sorriso e alla pacca sulle spalle. Un buon papà. Era in realtà duro come un sasso. Era il responsabile del cosiddetto “Ufficio Quadri”, la Commissione Centrale di Controllo: una sorta di tribunale della Santa Inquisizione che indagava e decideva sui casi di deviazionismo politico, sulla moralità degli iscritti, sui loro vizi privati e sulla loro fedeltà al partito.