Quel 14 luglio 1948 fu terribile. Avevamo paura per la vita di Togliatti. Emerse tutta l’ambiguità del Pci, quell’ambiguità che era stata nascosta. In verità in molti aspettavamo il momento della rivoluzione socialista e quella ci parve l’occasione buona. Molti partigiani, soprattutto al nord, non avevano consegnato le armi come richiesto dal governo alleato provvisorio. Masse di gente si riversarono per le strade e le piazze in tutta Italia. Era finalmente il nostro momento. Per me voleva dire cambiare tutto, costruire un mondo migliore. Non mi venne in mente che ci potessero essere scontri a fuoco, spargimento di sangue e anche morti. Non pensavo a una rivoluzione col sangue. Tutt’al più avrei potuto tirare i sampietrini, i sassi del selciato di Roma, addosso ai poliziotti. Non avevo nemmeno pensato che così facendo avrei potuto rompere la testa a qualcuno. Ricordo che eravamo in moltissimi in piazza Colonna a fronteggiare i celerini. Noi urlavamo, ci siamo anche sdraiati in terra per formare blocchi stradali. I negozianti abbassarono le saracinesche. La piazza era circondata dalle camionette scoperte della polizia. Avrebbero potuto arrestarci tutti.
Imparai a non restare mai in mezzo a un corteo, ma stare solo ai lati facendo spostamenti continui. Un poliziotto riuscì a colpirmi con uno sfollagente, ma riuscii a sfuggirgli e mi infilai in un portone di via del Tritone. Mentre salivo le scale, una signora aprì la porta, mi vide e richiuse con aria inorridita. Arrivai fin sulla terrazza e trovai un’altra scala per ritornare in strada. Il cuore mi batteva forte. Speravo che il celerino non mi stesse ad aspettare al portone. Guardai a destra e a sinistra. Di lui non c’era l’ombra. Mi incamminai, anche se le gambe mi tremavano.
Togliatti, dal letto dell’ospedale del Policlinico Umberto I, ordinò al Partito la calma. Ci dissero di tornare a casa, il Partito non autorizzava e non riconosceva nessuna manifestazione, nessun atto di violenza. Avevamo sbagliato tutto. In serata le strade di Roma erano già vuote. Rientrammo in sezione a leccarci le nostre ferite e ad aspettare le notizie su Togliatti.
Quando tornai a casa, trovai che i miei erano già tutti rientrati. Mia madre ebbe un attacco di rabbia e non potendomi picchiare come avrebbe voluto, prese un tegame di alluminio e lo sbatté tante volte e con tanta violenza sul lavandino di marmo della cucina, che lo ridusse alle dimensioni di un bicchiere.
Dopo due giorni riuscii a convincere papà ad andare sotto Botteghe Oscure per avere notizie di Togliatti. Quando arrivammo la strada era piena di gente in silenzio. Molti piangevano. Tutti avevamo paura che Togliatti morisse. Io non facevo che ricordare la sua carezza. Al Policlinico venne operato e curato dai professori Valdoni e Frugoni che da quel momento per noi divennero una specie di dei. Togliatti ce la fece.
Di quei giorni di ansia, ricordo i racconti di Nilde Jotti, donna schiva e molto riservata, ma che non riuscì a dimenticare il suo dolore di fronte all’uomo amato in pericolo di vita. I compagni le impedirono di stargli vicino perché non moglie legittima e non legittimata politicamente. I dirigenti del partito non volevano si sapesse del loro rapporto, anche se ormai non era più possibile nasconderlo. Fra i tanti rospi politici che Nilde dovette ingoiare nella sua vita, ci fu anche questo che riguardava il suo privato. Erano ancora lontani gli anni delle lotte per il divorzio. Così tennero nascosta anche la rottura del matrimonio fra Luigi Longo e Teresa Noce.