La paura del comunismo, voglio dire, il terrore sentito profondamente che i comunisti potessero impadronirsi del potere e, come avevano fatto altrove, deportare i preti, distruggere le chiese, impedire l’osservanza dei precetti religiosi. Il comunista locale, ancorché riconosciuto come brava persona, era emarginato ma temuto e più era temuto più si cercava di mantenere almeno un buon rapporto formale, con una formula tanto cara alla gente del Sud che, se da un parte le ha consentito di superare alcuni momenti tragici della sua storia, dall’altra ha costituito la palla di piombo sulla via dello sviluppo civile. Questa paura del comunismo che escludeva i suoi adepti da qualsiasi contatto con gli apparati ecclesiastici e le loro regole: niente confessione, niente comunione, niente nozze religiose, credo anche niente battesimo per i figli. Su queste regole si era inflessibili, anche perché, poi, le regole, passando attraverso le interpretazioni dei singoli adepti, diventavano più ferree di quanto non fossero. Questo radicalismo partiva dai preti, dai frati piuttosto che dalle suore, perché anche qui la donna aveva una posizione marginale, più subalterna, ma poi si sviluppava e materializzava nelle persone che vicino alla Chiesa si collocavano con le più svariate mansioni e che ogni giorno alla Chiesa stavano vicine. Non intendo qui riferirmi alle istituzioni interne alla Chiesa cattolica, non voglio qui ricordare gli interventi, per certi versi meritori, dell’Azione cattolica, ma soltanto far rivivere quel folto gruppo di anziani, vecchie signorine che nella Chiesa trovavano il loro punto di appoggio e che delle disposizioni ecclesiastiche diventavano novelli cavalieri, veri e propri crociati, megafono e portavoce, aggiungendo di loro storie truculente di stragi commesse dai rossi in Russia e in altre parti del mondo, qualche volta anche in Italia. Tutto questo si concretizzò nella svolta delle elezioni del 1948, aprile 1948, di cui io ricordo il volto di Garibaldi impresso sui muri delle strade, con il classico berretto rosso, che invitata a votare per il Fronte popolare; dove abitava mia nonna a Messina, agli inizi del quartiere Giostra; per diversi anni questa immagine mi fecero compagnia perché rimasero li stampigliate, piccole, quasi sbiadite, e nessuno si curò mai di cancellarle,come venne fatto per le famose scritte mussoline. Ma se il pericolo comunista fu esorcizzato e duramente sconfitto, ciò avvenne e fu percepito dagli alti gradi, da chi aveva paura delle idee comuniste per interessi personali; la popolazione, quella di Riposto, sostanzialmente vi rimase indifferente. Si, io bambino avevo paura della bandiera rossa e di tutti quelli che animosamente la cantavano, ma la mia era una paura fragile, li vedevo come esseri come me che non potevano farmi del male e che non immaginavo potessero assolutamente fare quello che gli altri raccontavano. Ma la Chiesa era inflessibile, non soltanto sul piano strettamente ideologico, come l’episodio che sto per narrare ampiamente dimostra. Non è un ricordo diretto, questo, ma il racconto di mio padre.
Il secondo nato della famiglia, il primo a Riposto, non so se per motivi familiari o, soprattutto, per malattia, non poté essere battezzato subito, cioè nei primi giorni di vita; passò qualche mese, due credo, non di più. Il giorno della cerimonia, fissata di sera, tutta la famiglia, mia nonna Angelina in testa, si recò nella Chiesa madre dove si doveva officiare il rito; mio padre sarebbe venuto direttamente dalla caserma dopo l’orario di ufficio. Così fu fatto. Ci trovammo tutti in chiesa; il luogo sacro era desolatamente al buio, tranne qualche candela perché, come disse mia nonna al figlio, non si potevano accendere le luci perché il battesimando era impuro. Bisognava battezzarlo prima, aveva detto l’arciprete; mia nonna aveva accettato perché per lei la parola del prete era Sacra; mio padre, invece, si infuriò, parlò con l’arciprete, gli comunicò che senza luci accese il battesimo non si sarebbe celebrato. Poi la chiesa si illuminò e il battesimo fu celebrato.