Le elezioni erano qualche cosa di eroico, di epico quasi: i partiti si battevano senza esclusione di colpi, ricorrendo all’ingiuria, alla calunnia, alla falsificazione pur di ottenere il proprio scopo.
Io non avevo allora che tre anni, ma ricordo ancora, se pur confusamente, il clima torrido della propaganda elettorale delle elezioni del ’48 e l’ansia di quei giorni non lasciava fuori noi bambini che vivevamo con intensa partecipazione emotiva quella battaglia di cui solo in seguito avremmo capito l’importanza.
I miei fratelli avevano costruito nel cortile di casa nostra una piccola cabina elettorale ed avevano inventato il “gioco delle elezioni” al quale parteciparono i bambini del caseggiato che erano una bella banda.
Il gioco fu condotto con l’efficacia propagandistica che ragazzi politicizzati come noi del clan P. potevamo avere nei confronti di amici figli de “L’UOMO QUALUNQUE”.
Nella nostra consultazione elettorale il Partito riportò, e non poteva andare diversamente, la maggioranza assoluta e gli Z. e i G. esponenti del centro-destra, furono clamorosamente sconfitti.
Non mancarono neppure martiri e vittime; tra questi voglio ricordare il luminoso olocausto di Gianfranco, il figlio del portinaio che si prese un fracco di botte dal padre democristiano perché aveva raccontato del gioco e di come avesse votato per il Partito.
Le mie sorelle Carla e Paola però non ritenevano che la loro partecipazione alla propaganda elettorale potesse limitarsi a inventare giochi più o meno didattici; così organizzarono una specie di commando rivoluzionario di bambini che strappava i manifesti dei partiti di destra suscitando le ire delle “tote A. ” il cui nipote è oggi un noto esponente del Movimento Sociale.
A posteriori quindi non si può dire che le mie sorelle non sapessero scegliere bene i propri nemici.
Altre nemiche nostre erano le “tote M.” (devo ancora capire adesso perché Saluzzo abbondasse di coppie di sorelle zitelle e maestre) sempre all’erta alla finestra per impedire le nostre piccole azioni di guerriglia politica. Sapevamo benissimo che nostro padre e nostra madre non ci avrebbero affatto approvati e che avrebbero giudicato incivile il gesto di strappare i manifesti degli oppositori, ma, si sa, la passione politica talvolta urge al punto da far dimenticare prudenza e ragione.
Dal canto mio osservavo e assimilavo: si faceva soprattutto strada in me l’idea dell’importanza dell’avvenimento che stavo vivendo.
Durante quella infuocata campagna elettorale era spesso a casa nostra un giovane di bell’aspetto che da quello che avevo potuto capire non era proprio del nostro Partito, ma che andava comunque considerato ugualmente come uno di noi. Non conoscevo allora i nomi dei vari partiti ma sapevo bene che tutti quelli del Fronte erano amici.
Ora questo giovane che io non mi sarei mai stancata di guardare e che riscuoteva unanime successo nei comizi tra il pubblico femminile era nipote di quel Giovanni Giolitti che avrei ritrovato in seguito nei libri di storia.
Talvolta con mia grande gioia si andava tutti a Cavour nella casa avita dei Giolitti dove c’era un’altalena altissima sulla quale si esibivano con spericolata sicurezza i figli di Antonio ed anche noi, naturalmente, per non essere da meno.
Intanto mio padre, il professore, parlava, parlava, parlava e tutti lo ascoltavano con grande interesse ed io ero molto orgogliosa di avere un padre “così bravo che sapeva tutto e che tutti ascoltavano”.
Venne poi il 18 aprile, la delusione e la caduta di tante speranze “l’Italia non è ancora matura per emanciparsi dalla Chiesa” dicevano i miei e io, senza comprendere i loro discorsi nutrivo un’antipatia spiccata per i preti e per il loro mondo che mi appariva estraneo e nemico.
La famiglia aveva seguito i risultati elettorali riunita in camera da pranzo intorno alla mastodontica “Marelli” che vomitava numeri, cifre e percentuali di cui capivo ben poco mentre m ricordo che pensavo chiaro e netto: “abbiamo perso”.
Solamente molti anni dopo sarei arrivata a “leggere” i risultati elettorali; allora pensavo che fosse possibile una sola cosa: vincere e quindi andare al governo e avere il “potere” in mano o non andarci e perciò aver perso.
Per molto tempo mi sconcertarono quindi le distratte risposte di mia madre, attenta ai risultati detti alla radio: “No, non abbiamo perso; ma no, non andiamo al governo, cosa dici?”. Per me non c’erano le sfumature; o si vinceva o si perdeva (ma avevo poi tutti i torti?); e vincere voleva dire andare al governo perché se ci andava il Partito era come se ci fossi andata io in persona.
Ancora oggi che so e conosco un po’ meglio i meccanismi della politica provo l’emozione di allora alla lettura dei risultati delle elezioni e non riesco a non sentire una punta di delusione quando non si “vince”, anche se mi conforta, ma non troppo, la coscienza che avanzare è già vincere.
Solo in tempi recenti, la sera del 12 maggio, ho provato la gioia che avevo tanto sperato di provare nella mia infanzia, perché si è vinto proprio come pensavo io allora che si dovesse vincere.
Quel famoso 18 aprile inasprì ancora di più la lotta e per noi fu l’esperienza amara della sconfitta del Partito, ma anche di tutto ciò che pensavamo ci fosse di giusto e di bello al mondo e questo ci fece sentire più uniti, più “clan” intorno all’idea politica.
Giocavamo, è vero, con gli altri bambini, ma ci sentivamo “diversi” e in effetti eravamo molto diversi dagli altri ragazzi di allora.
Eravamo diversi prima di tutto perché non eravamo religiosi e questo in una cittadina della provincia di Cuneo degli anni ’40-’50 voleva già dire molto.