Scontri e dissensi trovarono terreno fertile nel partito e nei suoi giornali per due altri motivi. L’intervento anglo-francese in Egitto e l’atteggiamento di Giuseppe Di Vittorio, il bracciante autodidatta di Cerignola diventato segretario della Cgil e deputato del Pci. Di Vittorio fu l’unico dirigente comunista a sostenere apertamente le ragioni degli insorti. E, ben conoscendo la sua popolarità, il vertice del Pci lo fece letteralmente a pezzi, nel corso di riunioni riservate, finché non ottenne da questo straordinario personaggio, già indebolito dalla malattia e sconvolto dal crollo di ciò in cui aveva creduto, parziali rettifiche. Penso di poter dire che se Di Vittorio morì, non molto tempo dopo, fu proprio perché il suo cuore era stato ferito a morte.
Malignamente, fu proprio lui ad essere incaricato di rispondere, alla Camera, agli attacchi e ai discorsi contro il Pci e l’Urss. Ricordo di quel giorno l’aula ribollente, le urla, i tentativi di aggressione fisica contro i parlamentari comunisti da parte di democristiani e fascisti letteralmente scatenati. E ricordo la sua forza, la sua grande dignità nel difendere in quell’inferno non la “linea” ufficiale, non i carri armati sovietici o la patria del comunismo, ma la validità della ricerca di un mondo migliore e delle lotte per conquistarlo.
All’ultima riunione cui venne convocato, nel palazzone delle Botteghe Oscure, Di Vittorio andò accompagnato dalla moglie che gli era stata accanto per tutta la vita. La moglie restò ad aspettarlo in un corridoio, sentendo le grida che venivano dalla stanza dove si stava svolgendo un vero e proprio processo. Quando Di Vittorio ne uscì, barcollava e si accasciò su una sedia, senza una parola, premendosi una mano sul petto. Poco tempo dopo un infarto lo stroncò. Questo episodio può sembrare minore, in quella grande tragedia, ma diede maggior coraggio e portò nuova rabbia fra tutti i dissidenti.