I sindacalisti principali della nostra delegazione erano due: G. D. e S. Il primo era soprannominato “baffone” per i suoi baffi alla Stalin ma soprattutto per l’attaccamento cieco al partito. Era comunque un brav’uomo, non il solito compagno che voleva mettere a ferro e a fuoco il mondo, era forse un po’ folle perché quando prendeva la parola a riunioni sindacali o di partito era di una prolissità incredibile, diceva sempre le stesse cose in una infinità di variazioni e godeva nell’ascoltarsi. L’altro, S., era molto in gamba, ma cercando ingenuamente di mediare tra le diverse posizioni divenne il classico capro espiatorio di tutte le parti in causa.
Entrammo e S. espose obiettivamente la situazione. Ma Di Vittorio, con la sua lunga esperienza politica, approfittò di una frase che poteva essere soggetta a una doppia interpretazione, prese la palla al balzo, sfruttò l’interpretazione che gli faceva comodo e si lanciò in una filippica politico demagogica che ci fece rimanere allibiti. Solo G. D. poverino stava in adorazione e assentiva in continuazione come un pendolo impazzito, quasi piangeva dall’invidia di non avere tali capacità oratorie. S. rimase incredulo ma calmo e ci sorbimmo fino all’una quella piazzata da comizio elettorale.
All’una squillò improvvisamente il telefono, era la moglie di Di Vittorio, che, dopo aver parlato brevemente con lei, attaccò il ricevitore e ci liquidò immediatamente. Uscendo ci fermammo un po’ all’ingresso a commentare l’accaduto e G. D. ipotizzò che forse Di Vittorio era stato chiamato per qualche impegno importante, ma uno del nostro gruppo, romano di Trastevere, quindi vero romano, commentò: “Ma che impegno era la moglie che l’avvisava che aveva buttato giù la pasta”.