A scuola non mi si accoglie certo a braccia aperte. L’anno scolastico è iniziato da un pezzo, io sono un immigrato meridionale (nonostante oggi i miei figli, con un criterio puramente geografico, continuino a considerarmi originario del centro e la mia naturale vocazione cosmopolita, io per anni mi sono visto, proprio a causa di queste prime prove di emarginazione, meridionale d.o.c., per spirito e radici!) e per me c’è spazio solo in una classe differenziale. Nella scuola classista di quell’epoca si chiamavano così quelle classi speciali dove finivano gli esclusi dell’istituzione scolastica: ribelli refrattari a qualsiasi disciplina, alunni difficili per un apprendimento troppo avulso dalla realtà, ultraripetenti e simili. La mia è una vera bolgia dantesca in miniatura. C’è un ragazzo quattordicenne che per l’altezza non riesce ad entrare con le gambe sotto il banco; costretto a star fermo, scarica la sua frustrazione con improvvisi scatti di violenza. Durante uno di questi scaglierà sansonescamente quel banco che sente come una prigione contro l’inerme maestra, per fortuna lesta a scansarsi per un pelo. Siamo in tutto una dozzina di bambini, l’aula è ricavata nel corridoio. La maestra è disponibile e ce la mette tutta, ma la sua è una fatica di Sisifo. Alla fine dell’anno da quella classe quarta sono l’unico a passare in quinta.