Il 26 luglio del 1951 Amintore Fanfani fu nominato Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste, incarico che lo lanciò definitivamente nell’agone politico nazionale e internazionale. Da quella posizione lo statista aretino, temuto e ammirato per la sua tenacia e la sua onestà, impresse una forte accelerazione alla riforma agraria, già iniziata per iniziativa di Antonio Segni, creando le condizioni per una rapida assegnazione di poderi ai lavoratori senza terra della Maremma toscana e di altre zone dove imperava il latifondo. Promosse inoltre varie iniziativa legislative per valorizzare i terreni montani e il rimboschimento di vastissime aree forestali.
Nel 1951 si fece largo prepotentemente, in campo politico e sociale, un altro cattolico destinato a far parlare molto di sé, Giorgio La Pira, eletto in quell’anno sindaco di Firenze, dopo aver strappato la città a un governo di sinistra. Questa vittoria, esaltante e inaspettata, non destò grandi entusiasmi in Amintore Fanfani, uomo di punta della DC toscana. Fanfani conosceva bene quell’intellettuale siciliano, sempre intransigente da un punto di vista dottrinale, trasferitosi da poco a Firenze per insegnare diritto romano nell’università. La loro conoscenza risaliva ai tempi della comune appartenenza alla “Comunità del Porcellino”, che li aveva visti a fianco di Giuseppe Dossetti, nel periodo della loro permanenza presso l’Università Cattolica di Milano.
Il parlamentare aretino aveva il timore che La Pira, per la sua fedeltà assoluta alla dottrina sociale della chiesa, non possedesse quella duttilità necessaria ad un amministratore pubblico, ma le sue apprensioni vennero meno appena il giovane sindaco si dimostrò all’altezza della carica a cui era stato eletto, iniziando quell’intelligente opera di “internazionalizzazione” di Firenze, che divenne in breve un centro di cultura e di azione politica capace di attirare su di sé l’attenzione di tutti i popoli del Mediterraneo, creando le premesse per un riavvicinamento tra musulmani, cristiani ed ebrei, in un momento in cui le tensioni internazionali rischiavano di superare ogni giorno il livello di guardia.
La profetica “megalomania” di La Pira partiva da una constatazione che a lui sembrava evidente: la pace universale poteva trovare il suo punto focale nella pacifica convivenza di quei due popoli, con Gerusalemme come punto di riferimento e di incontro delle tre grandi religioni monoteiste, il giudaismo, l’islamismo e il cristianesimo.
Il 1952 fu anche l’anno della massima espansione delle Acli aretine, che con oltre 8000 iscritti era di fatto una organizzazione che poteva incidere, in modo notevole, nella realtà politica e sindacale della provincia di Arezzo. In quel contesto alcuni circoli ampliarono la loro attività, dando notevole spazio alla parte ricreativa e sportiva, a scapito di quella sociale e religiosa. Queste iniziative non furono digerite dalle autorità ecclesiastiche del tempo che proibirono feste danzanti, non rientrando esse nella sfera della morale cristiana. In quegli anni ero il Segretario del Comitato provinciale delle Acli e posso affermare che la gioia di vivere una vita spensierata, ma priva di eccessi, scaturiva anche dal desiderio di dimenticare un passato che aveva creato drammi umani in ogni famiglia. “Vivere in allegria” era anche il motto di Don Giovanni Bosco che molti giovani ammiravano e veneravano.
In quell’anno anche i rapporti tra il governo e oltre Tevere si fecero tesi perché De Gasperi, in occasione delle elezioni per il Comune di Roma oppose il suo rifiuto ad un apparentamento tra la DC e i gruppi monarchici e neofascisti, caldeggiato da alcuni ambienti vaticani, che a loro dire avrebbe evitato la consegna della capitale alle forze di sinistra.
Quel fatto, a parere di molti storici, provocò una reazione in Vaticano, visto che De Gasperi dopo quel rifiuto, si vide negare un’udienza da parte di Papa Pacelli, chiesta per festeggiare il suo anniversario di nozze. Nella sua risposta, lo statista democristiano volle chiarire il suo pensiero sullo spinoso argomento dei rapporti tra stato e chiesa, affermando: “Come cristiano accetto l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla. Come Presidente del Consiglio italiano e Ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento e della quale non mi passo spogliare anche nei rapporti privati m’impone di esprimere lo stupore per un rifiuto cosi eccezionale e di riservarmi di provocare un chiarimento dalla Segreteria di Stato”.
Il 13 luglio del 1952, Alcide De Gasperi, nonostante le diurne difficoltà, accettando l’invito di Amintore Fanfani, partecipa, assieme a Giorgio La Pira, alla prima festa della montagna che ha il suo svolgimento nella folta abetaia che svetta sopra il Convento della Verna. In quel giorno ho conosciuto personalmente il grande statista. Il politico, l’uomo della montagna trentina, visse una giornata di autentico trionfo. Nel suo intervento , mostrò una grande lucidità politica e una grande speranza per il futuro, senza alcun riferimento alle nubi che stavano annebbiando il suo cammino.
La crisi economica mostrava segni di ripresa anche se il potere di acquisto dei salari e delle pensioni non aveva ripreso quota. Quei sintomi non furono sufficienti per indurre De Gasperi a non abbandonare la guida del governo nazionale. Capiva che stavano cambiando i tempi e la situazione anche all’interno del suo Partito. Era anche lui che la sua parabola politica si andava offuscando.
Quello era il momento di Amintore Fanfani. Il nostro uomo politico era visto ormai da molti come l’uomo in grado di portare la DC e il governo dell’Italia fuori dalle secche in cui sembravano essersi arenati. Ministro dell’interno nel settimo e ultimo governo De Gasperi, Amintore Fanfani fu confermato nell’incarico anche nel nuovo esecutivo guidato da Pella, uomo politico non eccessivamente amato negli ambienti riformisti e sindacali.
Fu in quel periodo che si ebbero vivaci scontri tra Fanfani e il suo amico Giorgio La Pira, che, come sindaco di Firenze, cercava di scongiurare la chiusura dello stabilimento Pignone, un’industria del gruppo Snia Viscosa. La Pira riteneva che Fanfani avrebbe dovuto usare il suo potere per convincere Franco Marinotti, leader di quel gruppo industriale, a non licenziare i lavoratori di quella importante industria della città. Come sindaco e come amministratore dichiarò solennemente “II lavoro è sacro” e arrivò a chiedere all’amico ministro di ordinare l’arresto dell’industriale.
Amintore Fanfani, che senza proclami stava alacremente lavorando per dare una soluzione alla gravissima crisi occupazionale, divenuta anche problema di ordine pubblico, raccomandò a La Pira di non aggravare la tensione esistente tra i lavoratori e di non abusare dei richiami dottrinali, trattandosi di un problema indubbiamente grave, ma da affrontare con iniziative economiche e finanziarie, non con le manette.
L’uomo politico del momento, sembrò rassegnarsi alla esasperazione del suo amico affermando: “Le croci d’altronde non si scelgono, in alcuni casi si sopportano con cristiana rassegnazione”. E intanto cercò di calmarlo ordinando che a Marinotti venisse ritirato il passaporto. Fece poi intervenire nella vicenda un altro pezzo da novanta, Enrico Mattei, Presidente dell’Eni, che risanò l’azienda, impiegandovi una quantità impressionante di capitali e ne assicurò lo sviluppo fino a farla diventare una delle industrie più importanti del nostro paese. Aveva vinto quel Sindaco che considerava la politica “il campo di una carità più vasta” perché le iniquità che provocano le sofferenze dei nostri fratelli vanno eliminate “mediante un’opera di riforma e di miglioramento delle strutture giuridiche, economiche e politiche, che formano il tessuto della relazione sociale”. Sono parole contenute nello storico scritto “La nostra vocazione sociale” dello stesso Giorgio La Pira.
Di lì a pochi mesi, caduto prematuramente il governo Pella, Fanfani fu incaricato di formare il nuovo esecutivo, il primo di una lunga serie, che ebbe, come quello precedente, vita breve e tormentata. Era l’anno 1954, l’Italia era ormai uscita dalla guerra da nove anni, ma la sua economia, pur migliorata, non riusciva a decollare e il problema occupazionale sembrava ormai irrisolvibile.
Il 1954 fu un anno veramente triste anche per Alcide De Gasperi, non tanto e non solo per la crisi che stava attanagliano il suo partito e la nazione, ma per i continui attacchi che il mondo laico qualunquista stava sferrando contro la sua persona. Ne era la prova il settimanale “Candido” che il 24.1.1954 pubblicava un violento attacco contro De Gasperi riproducendo una lettera dattiloscritta e firmata dallo statista trentino, datata 13.1.1944, con carta intestata della Segreteria di Stato, in cui si chiedeva il bombardamento delle zone periferiche di Roma.
La lettera in questione faceva parte di un fantomatico carteggio Mussolini-Churchill-Grandi-Vittorio Emanuele. De Gasperi intentò un processo contro “Candido”, allora diretto da Giovanni Guareschi, che dimostrò come la lettera fosse, in realtà un fotomontaggio. L’episodio, che ebbe una vasta risonanza nazionale, portò alla condanna del notissimo scrittore.
Intanto la DC, che stava superando un periodo di crisi interna, cercava di rilanciare la sua iniziativa in tutti i campi. Nel suo congresso nazionale, che si tenne a Napoli, fu sanzionata la fine dell’era De Gasperi e l’inizio dell’era Fanfani.
Il 4 luglio 1954 realizzai anche il sogno della mia vita. In quella splendida mattina celebrai il mio matrimonio con Natalina, chiamata “Nati”, la ragazza che avevo intravisto nei terribili giorni della montagna, che riammirai nel Convegno di politica sociale camaldolese e che fermai, dichiarandogli il mio affetto, nella “pazza domenica” di settembre del 1950.
In quello stesso mese il grande uomo politico trentino si spense nella sua casa di Sella di Valsugana, lasciando un vuoto incolmabile nel suo partito e nella vita politica del nostro paese. Con lui scompariva un illustre uomo politico che aveva ricostruito e governato un paese distrutto da un evento bellico senza precedenti.
Rifuggendo da benefici e vantaggi personali, dotato di una grande integrità morale, quell’uomo, onesto oltre ogni limite, si spense nell’unica casetta che da anni possedeva. Il patrimonio che lasciava erano le sue idee, il senso dello Stato e della giustizia sociale che lo avevano sempre animato e l’amore per la famiglia che lo aveva sempre aiutato. Testimone oculare di due grandi guerre, che avevano portato stragi e sangue in tutto il continente, sognava una Europa che avrebbe potuto preservare la pace, la libertà, il benessere.