Essere “rivoluzionari di professione” comportava una vita difficile e faticosa: soddisfazioni e notorietà per pochi, rinunce per molti. Ci si spostava continuamente da un comune all’altro d’Italia per tenere comizi, presiedere riunioni, mantenere i contatti con le organizzazioni periferiche del Partito. Non c’erano orari stabiliti: si lavorava fino a notte alta con retribuzioni molto basse. Lo stipendio del funzionario era equiparato a quello contrattuale di un operaio metalmeccanici, senza però gli straordinari e, soprattutto, senza che fossero versati i contributi previdenziali (questa situazione verrà sanata molti anni dopo, ai tempi del “consociativismo”, quando una apposita “leggina” permise di regolare la posizione pensionistica di tutti coloro che avevano lavorato alle dipendenze di partiti politici e dei sindacati).
I parlamentari comunisti versavano nelle casse del Partito più della metà del loro “appannaggio” di deputati e senatori, e la stessa cosa facevano i consiglieri comunali, provinciali, regionali, e tutti coloro che erano inviati a rappresentare il PCI nei consigli di amministrazione e di gestione degli enti statali e parastatali.
A rendere più delicata la situazione cominciarono anche le difficoltà economiche, che si sarebbero aggravate dalla fine degli anni ’70. I costi per mantenere un’organizzazione diventata ormai mastodontica erano lievitati enormemente e non erano più sufficienti le entrate correnti, pure consistenti, che venivano essenzialmente dalle “quote” pagate dagli iscritti, dai proventi delle “feste de l’Unità”, dai contributi delle Cooperative “rosse” e dall'”oro di Mosca”, che intanto si era quantitativamente molto ridotto.
Le spese maggiori erano per l’attività di propaganda: si cercava di contrastare i partiti avversari che potevano disporre delle contribuzioni notevoli dei potentati economici e, soprattutto, dei grandi mezzi di comunicazione, in specie della televisione.
Per non parlare delle indispensabili attività editoriali che, alla lunga, avrebbero dissanguato le risorse del Partito.
Soltanto assicurare ogni giorno l’uscita de l’Unità comportava un impegno economico enorme; i proventi della vendita del giornale, che nei giorni di grande diffusione superava il milione di copie, non erano sufficienti a coprire le spese e il pervicace boicottaggio praticato verso l’Unità nell’assegnazione della pubblicità aggravava la situazione.
La vita dei funzionari di Botteghe Oscure era perciò una vita di sacrifici e di rinunce: gli impegni continui obbligavano a trascurare i rapporti di famiglia o di coppia, il tempo da dedicare allo svago molto ristretto, e c’erano poi i problemi economici; pochi potevano permettersi il lusso di acquistare un’automobile, si abitava in residenze modeste, difficile procurarsi l’opportunità di qualche giorno di vacanza, al mare d’estate o in montagna d’inverno.
A dare l’esempio erano anzitutto i dirigenti che conducevano, tutti, una vita riservata ed austera, con pochissime concessioni alle forme meno appariscenti di un certo edonismo esistenziale che si andava diffondendo, in quegli anni, nella società italiana. E con comportamenti assolutamente spontanei che configuravano, in certi casi, una sorta di francescanesimo laico; ricordo, ad esempio, l’istintiva trascuratezza di Giancarlo Pajetta che per molti anni, ad onta della sua notorietà, abitò in un piccolo e modesto appartamento, lontano dal centro di Roma, arredato in modo approssimativo, dominato dalla disordinata disposizione di una quantità enorme di libri e giornali, con l’unica civetteria, se così si può dire, di una bella ceramica rotonda, stile Della Robbia, sul muro alla testa del suo letto e sulla quale era scritto “Ricco in Povertà”.
Eppure vi era in tutti un grande entusiasmo, una gran voglia di fare; la massima aspirazione coltivata era poter rappresentare il Partito nelle istituzioni pubbliche, diventare Sindaco e consigliere comunale, deputato, senatore, essere cioè in quei posti dove si aveva la possibilità di realizzare concretamente quanto elaborato teoricamente, e dove si sperava migliorare anche le proprie condizioni di vita. Speranza che non autorizzava, mai e per principio, a valicare i confini della più assoluta correttezza ed “onestà” nell’esercizio di funzioni pubbliche. Su questi temi la vigilanza del Partito era, a dir poco, ossessiva. Nessun comunista eletto a partecipare alla gestione del “bene comune” poteva, o doveva, soltanto pensare di profittare della propria posizione per interesse personale.