Torno ora a ricordare l’attività politica. Ai primi di Aprile del 1948 venni convocata dal Segretario di zona del partito. Vi andai in bicicletta nel pomeriggio, finito il turno di lavoro. La nostra sede stava nella Casa del Popolo che occupava, allora, il palazzo della ex Casa del Fascio in Piazza del Popolo; vi trovavano ospitalità anche la Camera del Lavoro, l’U.D.I., l’I.N.C.A. e la Coop.
Il compagno Segretario era già al suo posto di lavoro e mi accolse cordialmente invitandomi a sedere ed entrò subito in argomento: la Segreteria della Federazione Provinciale, chiedeva all’organizzazione empolese un gruppo di giovani destinati ad aiutare sezioni della città ad affrontare la campagna elettorale; io ero una dei prescelti e accettai con entusiasmo.
Presi le ferie e mi recai a Firenze. Lavorammo nei quartieri, strada per strada, con le famose riunioni di caseggiato, che ci permettevano il contatto con gli elettori; con le compagne andavamo nei mercatini rionali e, al mattino, al mercato centrale dove si facevano brevi comizi e volantinaggio rivolto alle casalinghe sui problemi del caro-vita, degli alloggi, ecc…
Dove vi erano spazi li occupavamo con i “giornali murali” e chi di noi sapeva scrivere collaborava, alla sera tenevamo i “giornali parlati” con i megafoni, nelle piccole piazze di quartiere.
Nell’ultima settimana di intenso lavoro facevamo anche volantinaggio alle fermate del tram e all’uscita della stazione centrale al mattino presto quando arrivavano i treni dei pendolari.
Alla vigilia della data del voto ci armavamo di barattoli di vernice bianca e scrivevamo slogans sull’asfalto nei pressi dell’entrata delle fabbriche e degli uffici pubblici. Ogni sera ci incontravamo con i comitati di sezione per fare il resoconto del lavoro e gli esiti che questo aveva avuto secondo il nostro giudizio. Poi si procedeva a programmare il lavoro del giorno dopo.
Il giorno delle elezioni, l’infausto 18, dovemmo organizzare la vigilanza contro i famigerati “Comitati civici” che nelle ultime battute facevano attività intimidatoria verso l’elettorato più debole (vecchi ed infermi) per accaparrarsi il voto. Noi compagni di Empoli ci dedicammo senza risparmio d’energie e fummo all’altezza perché dimostrammo di avere coraggio e senso dell’organizzazione.
Dovetti seguire tre sezioni, a base popolare, nei quartieri storici della città: Santa Croce, San Frediano e Santo Spirito; in quest’ultimo risiedevano gli artigiani più qualificati di Firenze: argentieri, orafi, stipettai, artefici di prestigiosi lavori in legno. In San Frediano allora, viveva una popolazione variegata costituita in maggioranza di sottoproletariato che, in parte, c’era anche in Santa Croce. Vi trovavi i palazzi delle nobili casate che fecero grande il nostro Rinascimento.
Il risanamento e un maggior livello di vita avevano ancora da venire.
La gente che abitava in quei tuguri era stenta, malata, e non erano poche le persone che ogni tanto soggiornavano alle “Murate”, il carcere cittadino. Conobbi donne che si ingegnavano a far quadrare il bilancio familiare piegandosi a fare lavori umili in nero, sottopagati.
Appresi che tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 vi era stata la categoria numerosa delle “seggiolaie” che cioè rivestivano in paglia le sedie oppure le riparavano; venivano naturalmente pagate male dai “procacciatori” che raccoglievano il lavoro dai falegnami e dai commercianti di mobili. “Seggiolaie” erano state a quei tempi un po’ tutte le sanfredianine ed erano bravissime e ricercate ma purtroppo questo lavoro era sparito con la messa in commercio del mobile moderno.
Certo, queste donne si piegavano a far tutto, erano molto sfruttate. Tra le popolane trovai allora tanta disperazione per le difficoltà a tirare avanti la vita. I bambini mal nutriti crescevano a stenti. Si era appena usciti da una guerra che anche in Oltrarno aveva portato lutti; molti giovani dell’Oltrarno presero parte alla liberazione dai “franchi tiratori” fascisti e parteciparono alla liberazione della città.
Quando guardavo quelle miserie sentivo una gran voglia di ribellione e riflettevo sulle nostre promesse che a guerra finita, ci sarebbe stata una vita migliore per tutti.
Il nostro gruppo lavorò senza sosta. Con me vi erano compagni operai che, come me, avevano preso le ferie per poter offrire queste giornate alla campagna elettorale del “Fronte”; ma vi erano anche compagni contadini che alcune sere tornavano a casa per dare mano alla famiglia ma ritornavano il mattino dopo; c’erano con noi anche vecchi compagni che avevano fatto la galera ed il “confino di polizia” i quali, la sera tardi, dopo la riunione di sezione ci parlavano delle loro esperienze di vita con un’umiltà e serenità d’animo che ci sorprendeva; noi della generazione più giovane ci sentivamo bene con loro, anche se eravamo fisicamente stanchi essi ci ridavano forza.
In quei quartieri ero l’unica donna inviata dalla Federazione, perciò lavoravo da sola; in Santa Croce conobbi la Celeste che teneva un banco di frutta. Mentre distribuivo volantini essa mi avvicinò, offrendomi casa sua per tenervi una riunione elettorale che lei si impegnava ad organizzare. La casa, disse, sta vicino alla Piazza del mercato di Sant’Ambrogio. Mi impegnai a comunicarle il giorno che ci sarei potuta andare. La sera stessa, in sezione, comunicai l’offerta della Celeste e i compagni si guardarono tra loro. Il Segretario che aveva un incarico di responsabilità delle vendite al Mercato, mi informò di conoscere bene la Celeste che anche a lui aveva parlato di questa riunione; mi guardò con in suoi occhi arguti e mi chiese: “Ti senti proprio di andarci?”, risposi: “Perché no?, la Celeste mi ha detto che invita sole donne e qui in città non è facile mettere assieme una riunione di caseggiato. quindi mi pure giusto andarci”. “Va bene allora vai”.
Fissai con la Celeste e un pomeriggio mi recai al suo indirizzo; bussai al portone e venne ad aprirmi un bambino nero come il carbone, di circa 5 anni che mi guardò con occhietti neri e curiosi e mi parlò ridendo in vernacolo indicandomi la scala e poi scappò come un fulmine.
Era la prima volta che vedevo in carne ed ossa un bimbo di colore; pensai subito ad un lascito della guerra. Fatta una rampa di scale buie ma larghe mi trovai davanti ad una porta di color nero a cui bussai. Dopo un po’, mi venne ad aprire una ragazza giovane, bella, alta, dalla folta e ricciuta chioma corvina che le ricadeva sulla nuca, alzata dalle parti sopra agli orecchi con dei pettinini con dei fiori rossi in velluto che allora usavano. Mi accolse con un bel sorriso e mi fece entrare comunicandomi che la Celeste sarebbe arrivata a minuti. Mi portò in una specie di saloncino illuminato da due grandi finestre che davano su una spaziosa corte come ho visto poi in molte ex case patrizie fiorentine. Lungo le pareti correvano vecchi divani stile ottocento, alcuni coperti di velluto rosso molto consumato e altri con fiori dai colori chiassosi. Sul fondo della stanza c’era un lungo antico tavolo color nero intagliato secondo un approssimativo stile rinascimento fiorentino, attorno al quale potevano trovar posto molte persone.
La Celeste mi arrivò alle spalle e mostrandomi il tavolone, disse: “Ecco dove ceniamo la sera. A pranzo le ragazze non vi mangiano perché sono a lavorare e mangiano con un panino. Si rifanno la sera a cena, quando preparo una minestra di verdura o fagioli o la pastasciutta e un secondo di trippa o di fegato e talvolta gli faccio persino la zuppa di pesce piatto che arrangio comprando la roba al mercato all’ultim’ora quando svendono le rimanenze.”
Le ragazze, alcune anche stagionate, provenivano dai paesi del nostro Appennino, dal Mugello, dal Pistoiese: luoghi dove si faceva la fame e non c’era lavoro per gli uomini, figurarsi per le donne. La Celeste le aveva raccolte in casa sua dove trovavano un letto e un pasto caldo la sera quando, chi di loro trovava, poteva godere anche di una compagnia maschile. La Celeste cosi sbarcava meglio il lunario. Mentre lei mi rendeva edotta dell’ambiente e della compagnia, le ragazze cominciarono ad arrivare. Eravamo ormai più di una dozzina e Celeste mi presentò come una “importante compagna inviata tra loro dal P.C.I.”.
Messo da parte il programma del Partito, che sempre portavo con me, presi di gran lena ad analizzare la vita di quelle donne, che per non morire di fame e aiutare le proprie famiglie, erano venute in città declassando la propria vita, lavorando in nero sotto padroni che le supersfruttavano, e la sera…
Puntai tutto il mio dire sull’ingiustizia della società. Loro intervennero dicendomi che avevo letto nei loro cuori, dando forma i loro pensieri. Sostennero diversi argomenti che mi furono d’insegnamento e ai quali mi sforzai di rispondere con gli argomenti che possedevo. Mi avevano preparato un “rinfresco” con dei biscottini e Vin Santo, assieme facemmo festa. Mi abbracciarono chiedendomi di ritornare e mi adularono dicendomi che nessuno, mai, gli aveva parlato in modo cosi convincente, neppure quel frate di Santa Croce, dal quale durante le feste comandate, alcune di loro andavano a confessarsi.
La sera quanto tornai in sezione i compagni vollero sapere come era andata. La curiosità punteggiava le loro facce. Risposi un secco: “È andata bene”. Il Segretario sapeva tutto e condivise la mia riservatezza e più tardi, quando furono presenti solo i compagni della Segreteria, uno di loro mi disse: “Quelle donne sono state contente e voteranno tutte per il “Fronte” ma tu cosa mai gli avrai detto?”. Risposi: “Questo è un mio segreto e non ve lo rivelo”. “Montemaggi sei stata grande”, esclamarono gli altri e concludemmo con una risata fatta di tutto cuore.
Nelle prime ore del mattino, a campagna elettorale finita, presi un treno prestissimo e tornai a casa. Conoscevo il deludente risultato delle urne; la lista contrassegnata dalla testa di Garibaldi era stata battuta. Iniziavano decenni di strapotere democristiano che avrebbero marchiato questo nostro paese fino alle soglie del 2000. Avrebbero usato l’appoggio dei neofascisti e la grande scomunica degli elettori comunisti.
Arrivai a casa alle sei e mezzo, il sole era già alto. Lungo la strada, che si chiama la “naiana”, avevo raccolto da una siepe una campanula bianca svegliata dal primo sole. Mi venne ad aprire mamma, felice di rivedermi, che abbracciandomi domandò: “Com’è andata?”, le porsi l’innocente campanula e mestamente dissi: “Questo è il simbolo che ha vinto, il “bianco fiore”, ci stringemmo piangendo e l’avvenire avrebbe detto con quanta ragione.