Ho tenuto per ultimo, come ricordo a sé, il racconto di alcuni giorni particolarmente cari, che mi hanno lasciato nel cuore un segno incancellabile. Alla fine del maggio 1949, quando facevo ancora parte della segreteria di Spallicci, mi fu proposto dalla Direzione del Partito Repubblicano di andare a tenere un ciclo di conferenze e comizi a Trieste, in occasione delle elezioni amministrative nella zona anglo-americana, elezioni che avrebbero avuto la loro conclusione con le votazioni del 12 giugno.
Per t triestini, quelle elezioni assorgevano ad una importanza straordinaria; difatti, l’ultima volta che avevano avuto la possibilità di votare era stato nel 1924. Poi il fascismo… poi la guerra… ed infine la scissione dalla patria.
Era tale l’importanza che i partiti politici davano all’avvenimento che, nessuno escluso, avevano sentito il bisogno di inviare a Trieste i loro esponenti più prestigiosi, gli uomini più autorevoli, seguiti, naturalmente, da oratori di più modesto calibro per riempire i vuoti. Anche il governo italiano avvertendo la necessità di sottolineare l’evento, aveva emesso un francobollo commemorativo da venti lire su cui, stilizzata, era riportata la sagoma della Chiesa di San Giusto e, dall’alto, scendendo sul lato destro quasi a circoscrivere e difendere una proprietà indiscutibile, la scritta: “POSTE ITALIANE”.
Partii da Roma di sera, ricordo, e, a quell’epoca, il servizio ferroviario oscillava ancora tra la “precisione oraria fascista” e qualche accettabile ritardo. Oramai che navighiamo nel disservizio più completo, in fondo la precisione dei “treni fascisti” è l’unica cosa di quel ventennio che effettivamente rimpiango.
Comunque, quando dal finestrino, il lucore opalino dell’Adriatico cominciò ad accentuarsi, mi fu possibile intravedere in lontananza il bianco immacolato del castello di Miramare. Oramai ci mancava poco all’arrivo e mi sentivo commossa, inorgoglita e pavida; pensieri che avevo l’intenzione di esprimere, frasi che contavo di pronunciare, si agitavano nella mia mente come topi inseguiti da un gatto, si aggrovigliavano come i fili di una matassa arruffata…
Si… avevo parlato tante volte in piazza o in teatro…in ambienti facili ed in ambienti difficili, ma la meta verso cui andavo oggi era diversa… era Trieste, una delle città più care all’Italia, una città per cui tante vite si erano sacrificate e per far sì che potesse avvertire tutto l’amore che nutrivamo per lei, avevano chiesto anche il mio modesto contributo.
A tanti anni di distanza, in una prospettiva che oramai il tempo e i successivi eventi consentono, mi domando se fu per lei una soluzione gratificante quella di divenire il più remoto e appartato porto d’Italia, dopo essere stata l’unico sbocco verso il mare, con un retro-terra di ampio respiro; ma in quei giorni l’assillo era uno solo, per noi e per lei: poterla chiamare nuovamente italiana.
Quanti legami trovai in seguito, tra me e quella città: la mia vecchia scuola elementare di via dei Giubbonari, che si chiamava, appunto, Trento e Trieste; l’inno “Trento e Trieste” scritto da quello che, se fosse vissuto, sarebbe stato mio suocero, volontario di Domokos, volontario nella grande guerra, poeta e scrittore: Fernando Agnoletti; i racconti che me ne aveva fatto Facchinetti, eletto deputato a Trieste nelle elezioni del 1924… e che sarebbe venuto, col suo comizio del 10 giugno, a concludere la campagna elettorale…
Alla stazione erano ad attendermi tre o quattro amici repubblicani per accompagnarmi, prima in albergo, dove mi avevano prenotato una stanza, poi alla direzione del partito. Era stato già stabilito che il giorno dopo, 3 giugno, avrei parlato in Piazza San Francesco e così, quel pomeriggio, volli andare tutta sola a fare un giro per la città. Non è possibile descrivere l’atmosfera che si respirava in quei giorni a Trieste! Sole e luce… mare e vento… ed un’aria da vigilia di festa grande! L’attesa era avvertibile, visibile su tutti i volti che incontravo: molti si sorridevano senza neanche conoscersi. Ne fui così colpita che, arrivata alla chiesa di San Giusto, seduta, sola, su un gradino, appoggiandomi ad un cancelletto laterale di ferro battuto, sul retro di un opuscolo di propaganda scrissi, così come mi venivano, pochi modesti versi che terminavano con questa terzina:
…..
E da San Giusto sino a Miramare,
alta nell’aria, trepida e sospesa,
un’accorata nostalgia di patria!
E gli amici repubblicani ne furono così entusiasti che, successivamente, la pubblicarono per intero sul giornale di Trieste “La voce libera”.
Il giorno dopo, a Piazza San Francesco, mi aspettava un palco coperto di bandiere ed una folla di gente: non mi conoscevano, ma il solo fatto che ero una repubblicana venuta da Roma, il solo fatto che portavo loro un messaggio di amore e di fede, fece sì che mi accogliessero con un nutrito battimani, cosa che fece correre ancora di più i topini ed aggrovigliare ancor più la matassa!
Il presentatore si avvicinò al microfono e, dopo poche parole, si allontanò di un passo e lasciò a me il posto: era il mio turno… Cominciai a parlare, così come mi veniva dal cuore… e i topini sparirono e la matassa si dipanò. Iniziai col dire:
– Siete in tanti, venuti qui ad ascoltarmi e ve ne ringrazio… ma che posso dirvi io se non tutto quello che voi avete già nel cuore..? Proverò a tradurlo in parole… non per tutti voi, ma per ognuno di voi… parlerò al fratello ritrovato, che non voglio più perdere, stringendogli forte la mano…
Era un linguaggio che capivano, era quello che volevano sentirsi dire e quando, poco più di mezz’ora dopo, terminai di parlare, fui sommersa da applausi, da abbracci, da richieste di autografi…
Un’anziana signora, magra e gentile, vestita di grigio – lo ricordo come fosse adesso – che era stata, per tutta la durata del discorso, nel palco, dietro di me, si fece avanti e disse nel dolce dialetto della sua città:
– Te posso abrazar, sì benedeta?… – Certo, replicai abbracciandola (e dalla folla, improvviso, sali un altro scroscio di applausi); poi, quando la signora si allontanò domandai ad un amico:
– Ma chi è?
– È Gisella..la sorella di Oberdan, mi rispose.
Ed a me parve di aver incontrato la “storia”.
Non mi è facile descrivere gli otto giorni che passai a Trieste: quando era annunziato un mio comizio (e ne tenni in tutti i quartieri della città, compresi quelli confinanti con la Jugoslavia!) mi arrivavano in albergo numerose lettere che mi incoraggiavano a trattare o mi chiedevano di trattare questo o quell’argomento. Tra quelle che conservo ve n’è una firmata “Un vecchio cattolico” che mi pregava di chiarire nel comizio già annunziato e che doveva aver luogo il giorno 7 a Piazza San Giovanni, in cui avrebbe parlato sopratutto Spallicci, il concetto “libera chiesa in libero stato”, cosa che feci coscienziosamente e nei limiti delle mie possibilità. Dovetti sembrare convincente se, nel resoconto dell’8 giugno, sulla “Voce Libera”, era detto: “Matilde Cestelli, parlando con acutezza e sensibilità sul delicato tema religioso e confessionale… aveva sollevato l’entusiasmo della folla”.
Non ho mai saputo, però, se il “vecchio cattolico” fosse rimasto convinto dalle mie argomentazioni. Quante cose commoventi mi capitarono in quei giorni! Ricordo una sconosciuta signora che mi fermò, per la strada, mi strinse forte una mano e, con gli occhi lucidi e la voce retta, mi disse:
– Parli di Zara, signorina… si ricordi di parlare di Zara… come se fosse stato in mio potere cambiare la geografia politica dell’Europa!
Avvicinandosi il termine del periodo elettorale, i repubblicani di Trieste vollero offrire un pranzo agli amici venuti ad aiutarli; tra gli intervenuti, c’era un alto e silenzioso signore dai capelli grigi, dall’aria un po’ distaccata, un po’ assente; domandai chi fosse:
– Giani Stuparich. Mi risposero.
Sapevo che era medaglia d’oro della guerra 15-18, come lo era suo fratello Carlo, a cui l’alta onorificenza era stata data “alla memoria” poiché preferì uccidersi che cadere in mano nemica. Ma non sapevo, né potevo immaginare che, una volta sposata, avrei trovato, tra i libri di mio marito, tutte le opere di Stuparich, tra cui “Guerra del 15-18 – taccuino di un volontario” nella cui pagina interna è scritto:
“Al carissimo figlio di Fernando Agnoletti
la Mamma di Carlo e Giani – Trieste, marzo 1935”
L’ultimo comizio che tenni a Trieste fu a Piazza dell’Unità, gremita di folla fino all’inverosimile; ma io parlai brevemente, come preludio al discorso di un amico di Grosseto, l’On. Magrassi, oratore elegante ed acuto.
E si avvicinò il giorno della partenza.
Alla vigilia, Bartoli, il Sindaco di Trieste, succeduto da poco a Miani, mi invitò al Palazzo del Comune e volle che ponessi la firma sull’imponente volume posato su di un leggio, che contiene gli autografi delle “persone importanti”… e mi invitò a scrivere una frase di saluto per la sua città. Presa alla sprovvista, un po’ confusa, non feci altro che trascrivere l’ultima terzina della mia poesia: in fondo, contenevano la descrizione di uno stato d’anime ed un augurio! Bartoli, in cambio, mi consegna un astuccio – che conservo carissimo – contenente una medaglia d’argento su cui è inciso, da una parte lo stemma della Città, e dall’altra la dicitura:
A MATILDE CESTELLI
Il Comune di Trieste – giugno 1949
E il giorno dopo, alla stazione, mi fu donato, in nome di Trieste, un mazzo di rose rosse legate con un nastro tricolore. Le rose arrivarono a Roma appassite, ma il ricordo non appassirà mai!