Era l’epoca ingenua del Partito, in cui si leggeva “Realtà Sovietica”, per i figli si comprava “Il Pioniere” e non si dubitava che Stalin fosse “il salvatore dell’umanità”.
Io della vita di Stalin sapevo tutto e nutrivo per lui una autentica venerazione. Mi entusiasmavo quando lo vedevo nei film di Italia-Urss e avrei voluto essere al posto della bambina che gli porgeva il mazzo di fiori. Quando morì nel 1953 soffersi veramente e partecipai alla manifestazione di cordoglio che si tenne, se non sbaglio, al Carignano a Torino. Ricordo che c’era un grosso registro sul quale apposi anch’io la mia firma; mi sembrava impossibile che un uomo come quello potesse morire come tutti i comuni mortali.
Ma in quell’occasione erano in molti a piangere e non solo bambini. Volere o no, Stalin era stato il simbolo di un’epoca e il portatore per molti di un messaggio di redenzione sociale non lontana. I documentari che lo rappresentavano mentre baciava bambini o mentre falciava grano non facevano pensare a nessuno che potessero esserci delle somiglianze con un ben noto trebbiatore italico, di cui l’Italia si era da poco liberata.
Io ero bambina, ma anche la democrazia italiana lo era e si sentiva il bisogno di credere oltre che in qualche cosa, in un ideale, anche in qualcuno che concretamente di questo ideale fosse il portavoce.
Il culto della personalità era per me qualcosa di spontaneo; leggevo, sentivo parlare di Stalin ed egli era divenuto il mio leader.
La morte di Stalin fu il primo grosso trauma politico della mia vita.