Piero Campisi nasce nel 1928 a Brescia; la famiglia è composta dai genitori e da tre figli. Il padre ha uno studio fotografico nello stesso palazzo dove abitano, la madre è casalinga.
Piero, tanto è di carattere mite e timido da bambino, quanto irrequieto e ribelle da adolescente: sarà la professoressa di materie letterarie, con pugno fermo e tanta pazienza, a riuscire a farlo avvicinare allo studio della letteratura e della storia, che saranno decisive per la sua futura professione di giornalista.
La Seconda guerra mondiale scoppia quando Piero ha solo dodici anni: non c’è però, almeno all’inizio, né paura né preoccupazione. Anzi: l’autore racconta di guardare con invidia i ragazzi poco più grandi di lui che, vestiti da soldati, con aria fiera e spavalda partono per il fronte. Sono le ristrettezze economiche, le arroganze dei fascisti, gli insuccessi del nostro esercito a fargli cambiare a poco a poco idea.
Un momento impresso nella sua memoria è il rientro di alcuni battaglioni di fanteria e di alpini dal fronte russo. La Federazione fascista ha preparato per l’occasione una grande festa patriottica con bandiere alle finestre, volantini, donne che lanciano fiori dai balconi: accade però che molti soldati si rifiutino di scendere dai treni e la grande parata prevista si risolve grottescamente con un pugno di militari che sfilano fiaccamente per la città, vestiti da pezzenti, con la musica ad accompagnarli e i fiori sull’asfalto.
Nell’ottobre del ’43, dopo l’armistizio, assieme a un gruppo di compagni antifascisti raggiunge la Val Trompia e si aggrega alla divisione Fiamme Verdi, poi brigata Perlasca. Sono in trentatré e occupano la stalla e il fienile di due baite di montagna a cui i partigiani danno una mano nei lavori giornalieri. Il nome da battaglia di Piero è “Massimo”, ed è il più giovane del gruppo. Non essendo in obbligo di leva e quindi libero di circolare, gli vengono assegnate pericolose missioni come staffetta tra la base, Brescia e Milano. Sono missioni pericolose: anche se non è stato chiamato alle armi, infatti, può comunque incappare in qualche azione di rastrellamento fascista o nazista. Durante una di queste viene infatti arrestato e riesce a fuggire rocambolescamente, scampando così alla deportazione in Germania.
Sono mesi duri, specie quelli invernali. Lui e i compagni macinano quotidianamente chilometri e chilometri con zaini e armi sulle spalle, colpiscono gli obiettivi (in genere delle caserme) per poi dileguarsi e fuggire rapidamente.
A guerra finita, l’autore si iscrive al Partito d’Azione e con un amico inizia a lavorare al giornale del partito. L’esperienza dura poco: il partito si scioglie infatti nel 1947, confluendo nel Partito Socialista.
Nello stesso anno, dopo una brevi parentesi di lavoro presso giornali locali, approda all’Unità, mentre l’anno successivo, scosso e deluso dalla sconfitta elettorale del Fronte Popolare, prende la tessera del PCI. Il lavoro a tempo pieno per l’organo ufficiale del PCI continua fino al 1967, anno in cui apre una galleria d’antiquariato a Desenzano del Garda, facendone un centro di discussione politica e culturale.
Muore a nemmeno sessant’anni, nel febbraio del 1987.
Nella sua memoria, intitolata La pecheronza dal nome che nella redazione dell’Unità avevano dato alla telescrivente, il cui suono ricordava il ronzio di un’ape, Campisi ripercorre la propria storia di giornalista, mantenendo sempre un occhio puntato verso le vicende politiche italiane ed internazionali. Forte la contrapposizione ideologica con la Democrazia Cristiana e con i suoi uomini; la scrittura, schietta e ironica, restituisce vivacemente la vita di redazione nell‘Unità. L’opera, che ha raggiunto l’Archivio Diaristico Nazionale nel 1986, è stata pubblicata postuma dalla moglie dell’autore.